Header Blog Banner (2)

Correvano gli ultimi anni del mitico decennio degli anni '70 ed i primi anni dei mitici anni '80, gli anni dell'edonismo craxiano, della Milano da bere, del boom economico, degli yuppies, ed erano anche gli anni della Disco Music e delle discoteche. Sulla costa tirrenica in quegli anni tanti erano i locali dove si ballava la notte, dove ci si incontrava, da "Le Caravelle" al Tortuga, al Moana, all'Enfer, solo per citarne alcune. Fra queste anche "L'Onda Verde", una bellissima discoteca all'aperto incastonata in un luogo suggestivo e bellissimo. Nella collinetta prospiciente le vecchie Terme di Guardia Piemontese. Potranno ricordarla solo chi oggi ha passato i cinquanta, ma in quel periodo era frequentatissima e non furono in pochi i cantanti ed artisti dell'epoca di fama nazionale che allietavano le serate. Dalla fantastica e rimpianta Mia Martini a Loredana Bertè, da Franco Califano, a Fred Bongusto, solo per fare alcuni dei nomi in auge e al top di quel periodo di gran fermento musicale ed artistico. L'Onda Verde viene anche menzionata nella rinomatissima guida alle discoteche più belle d'Italia che venne pubblicata da una famosa casa editrice nazionale a firma dell'allora Ministro degli esteri, Gianni De Michelis, famoso anche per la sua sfrenata passione per le discoteche. Poi, come tutti i templi della musica degli anni '80 compresi quelli della riviera romagnola, la moda delle discoteche tramontò, l'epoca della Disco Music svanì e tutti i locali dell'epoca chiusero. Solo qualcuno, trasformandosi ed adeguandosi ai tempi, riuscì a sopravvivere. Oggi rimangono solo dei resti occultati dai roveti e dall'erba alta. Ma chi vi ha vissuto tante belle serate con la spensieratezza degli anni della gioventù ritornando in quei luoghi chiudendo gli occhi non può che rivedere le immagini di quegli anni, di quella spensieratezza, di quella favolosa età che, purtroppo, è fuggita via e mai più ritornerà.
Redazione

 

Son trascorsi 10 anni da quel 5 settembre 2010, quando, venne ritrovato nella sua Audi A4 il corpo senza vita del Sindaco di Pollica, Angelo Vassallo. Ucciso con una calibro 9 a distanza ravvicinata. Nessuno vede nulla, nessuno sente gli spari. Inizia in tal modo un giallo ancora insoluto, dopo ben 10 anni dall'omicidio eccellente. Angelo Vassallo era sindaco del suo paese da ben 15 anni, era stimato da tutti e pochi giorni prima del suo omicidio si era confidato con un suo amico dicendogli di aver scoperto una cosa che non avrebbe mai voluto scoprire. Nessuno ancora oggi dopo dieci anni può dire con certezza quale sia questa "cosa" che lo aveva enormemente preoccupato, Nessuno è in grado di affermare con certezza giuridica, dopo ben dieci anni, quale sia stato il movente dell'omicidio. Negli ultimi tempi della sua sindacatura Angelo Vassallo si adoperò con la sua solita energia contro il fenomeno dello spaccio di droga che aveva invaso Acciaroli, frazione di Pollica, comune del salernitano, e zona portuale. Come al solito, gli inizi della fase d'indagine non si contraddistinguono per brillantezza e professionalità. Sulla scena del delitto nell'immediatezza del fatto circolano tantissime persone provocando inevitabilmente l'inquinamento probatorio del luogo del delitto. Ed ancor meno efficienti sono le prime fasi dell'indagine che si concentrano sull'italobrasiliano, Bruno Humberto Damiani, frequentatore degli ambienti di spaccio e della movida cilentana. Alla fine verrà scagionato con l'archiviazione del fascicolo. In seguito si adombrano sospetti anche su note consorterie criminali della 'ndrangheta calabrese con infiltrazioni nel salernitano, ma anche queste decadono per mancanza di prove certe.

Ne seguiranno altre di possibili piste investigative ma nessuna di questa regge alla veridicità delle prove concrete che continuano a mancare. Ed in merito a tutte le piste battute inutilmente mentre sono trascorsi ben dieci anni senza alcun colpevole e senza alcun movente il Procuratore capo di Salerno, Giuseppe Borrelli, che coordina il lavoro del pm Marco Colamonici che ha ereditato il fascicolo dalla pm Rosa Volpe, oggi a Napoli, ha inteso ripercorrere e ritroso tutte le piste percorse per definire un nuovo quadro investigativo cercando, in qualche modo, di ridare slancio alle indagini. Intanto l'arma del delitto non è stata mai ritrovata e si brancola nel buio. Chissà se un giorno qualche pentito di mafia potrà con le proprie dichiarazioni far luce su questo delitto eccellente, per come è accaduto già in passato dove solo le dichiarazioni dei pentiti hanno consentito di riaprire fascicoli ed indagini su delitti eccellenti e sui quali la giustizia brancolava nel buio. Intanto continua l'impegno dei familiari di Angelo Vassalllo e delle tante associazioni nate nel suo nome nel richiedere pretendere giustizia e nel non dimenticare il sacrificio di un uomo giusto che ha perso la vita per la legalità e per la difesa del suo territorio.
Redazione
( foto tratta da: www.antmafiaduemila.com

“Rocco Musolino (boss di Sant’Eufemia dell’Aspromonte ndr) mi disse che aveva salvato un compaesano a lui legato che era il personaggio chiave della scorta di Aldo Moro, facendogli sapere che quel giorno egli non doveva andare a lavorare. Fu proprio quello il giorno dell’eccidio”. Sono le parole del pentito Filippo Barreca trascritte in un verbale dell’8 settembre 2016. L’uomo scampato alla strage di via Fani del 16 marzo 1978 è il vicebrigadiere Rocco Gentiluomo di Sant’Eufemia d’Aspromonte, deceduto tre anni fa. Gentiluomo era il capo-scorta degli agenti che seguivano Aldo Moro. Il vero angelo custode di Moro, però, era il maresciallo Oreste Leonardi, che decideva insieme a Moro stesso, ogni giorno, l’itinerario da fare. Fatto che si evince anche dai due unici interrogatori a cui viene sottoposto Gentiluomo, sia dal giudice Imposimato nel 1978 sia durante un’audizione della prima Commissione Moro nel 1981 dove, insieme ad altri non di turno il 16 marzo, dichiarerà anche che Moro faceva tutte le volte lo stesso percorso. Dichiarazioni queste subito smentite dalla moglie del presidente Dc, Eleonora. Quelle parole Filippo Barreca, tra i più rilevanti collaboratori di giustizia di ’ndrangheta, le ha pronunciate davanti al magistrato Guido Salvini e al tenente colonnello Massimo Giraudo. La testimonianza veniva raccolta ai fini delle indagini che l’ultima Commissione parlamentare sul sequestro e l’omicidio dell’onorevole Moro, stava conducendo. Ma di queste dichiarazioni non c’è traccia in alcuna delle relazioni pubblicate dal 2015 fino alla fine legislatura nel dicembre 2017. Ne fa debole cenno l’ex presidente della Commissione, Giuseppe Fioroni, quando pone una domanda al procuratore aggiunto di Reggio Calabria il 27 settembre 2017. Lombardo, che con il suo ufficio ha concluso da pochi giorni l’importante processo ’Ndrangheta stragista culminato in una sentenza di condanna, spiega come proprio l’area indicata dell’Aspromonte sia di riferimento alle famiglie di vertice (Nirta, Piromalli, De Stefano, Musolino, Serraino) che già prima del 1970 avevano creato la struttura riservata, parte di quella specie di massoneria che interviene in molti dei cosiddetti “misteri” italiani. Questo verbale si va ad aggiungere ad altri elementi, come la presenza del boss Antonio Nirta (classe 1947) in via Fani, la cui immagine immortalata quel giorno sul luogo della strage è stata riconosciuta dal Ris come aderente al 99% a quella del boss, e i sospetti, mai confermati, sulla presenza del legionario Giustino De Vuono  utilizzato (questo è certo) dalla famiglia Nirta di San Luca in quegli anni. E, infine, a quanto dichiarato da Antonio Fiume, l’armiere dei Di Stefano, (ritenuto attendibile dalla procura di Reggio Calabria) che ha parlato di due mitragliette Skorpion da lui in precedenza custodite insieme ad altre armi, come presumibilmente utilizzate quel giorno in via Fani. La componente ai vertici della ’ndrangheta, insomma, aveva anche deciso la vita di chi doveva restare vivo e chi no quel 16 marzo del 1978, quando alle 9.02 del mattino all’angolo fra via Fani e via Stresa a nord della Capitale, moriranno i 5 agenti della scorta di Moro. Il vicebrigadiere Francesco Zizzi, che sostituì Gentiluomo, è l’unico a non morire sul colpo, perderà la vita due ore dopo in ospedale. Le indagini svolte dalla Commissione nel corso del tempo su quest’anomala sostituzione (che non è l’unica, anche l’appuntato dei carabinieri Domenico Ricci morirà al posto dell’autista Otello Riccioni) indicano documenti poco chiari sui turni svolti dal Gentiluomo e strane assenze del suo nome nel cosiddetto ruolino del personale. Nulla di più se non una dichiarazione di un suo collega, Adelmo Saba, che aveva raccolto la confidenza del Gentiluomo affermando di “essere stato salvato”. Ma nessuno gli ha mai creduto. Il collaboratore di giustizia Barreca è ormai senza protezione dal 2017, così come i suoi familiari, nonostante le sue dichiarazioni sin dal 1992 siano ancora ritenute rilevanti per i diversi processi che sono stati istruiti nel corso degli anni fino a oggi, e nonostante sia ancora chiamato a testimoniare: così almeno è avvenuto fino al giugno 2020 per la strage della nave Moby Prince (10 aprile 1991) data ultima indicata dal suo avvocato nelle carte della causa che Barreca ha intentato contro il ministero dell’Interno. Il collaboratore non si sottrae comunque al suo ruolo, per quanto sin dal 2009 la sua vera identità nel luogo dove risiede sia stata esposta pubblicamente e la sua attività legalmente impostata come concordato con lo Stato abbia subìto un grave tracollo. Tanti i fatti da lui riferiti e via via riscontrati che riguardano anche quelle indicibili commistioni fra mafie, massoneria e servizi segreti. Ma c’è un altro documento di cui vale la pena scrivere e da noi consultato: è presente presso l’Archivio Centrale dello Stato in Roma e proviene dalla Marina Militare. Il documento riferisce dell’operazione dei Comsubin (Comando subacqueo e incursori) pronti a intervenire “durante la crisi Moro”. Il ruolo dell’unità speciale è rimasto segreto fino al 1991 quando lo rivelò Cossiga. Il documento nr. 13/255/5 del 5 ottobre 1991 nell’indicare però la cronologia precisa d’intervento di quei 55 giorni pone al 15 marzo il giorno del rapimento di Moro e all’8 maggio il giorno del ritrovamento del corpo: i commenti riferiti ai due giorni rispettivamente sono di “stato di allerta” autonomo e di “prosieguo del corso fino al suo completamento” nel giorno del “rinvenimento del cadavere di Moro”. Le date ufficiali della storia sono invece quelle che tutti conosciamo: 16 marzo e 9 maggio 1978. Difficile pensare a un errore di battitura, le attività trascritte sono parte di una serie cronologica fitta comprendente l’arco dei giorni del sequestro e sigillata da timbri e contro timbri. Il 15 marzo 1978 al vicebrigadiere Gentiluomo viene detto di prendersi delle ferie. Un giorno fortunato il suo, mentre i Comsubin si pongono già in stato di allerta autonoma per intervenire nel caso Moro che deve ancora iniziare.

 
Articolo di Simona Zecchi
Tratto da: Il Fatto Quotidiano

Il 1999 nasce “La Provincia Cosentina”, fondato dalla società “Il Mezzogiorno Srl”. Il primo numero “prova” viene distribuito in edicola il 20 gennaio 1999, le pubblicazioni regolari hanno inizio il 28 gennaio 1999. L'ultimo numero in edicola uscirà il 28 luglio 2008. “La Provincia Cosentina” uscì in edicola per ben nove anni e sei mesi. Un periodo certamente non trascurabile considerando le difficoltà editoriali per una regione difficile come la Calabria che, notoriamente, è poco propensa alla lettura. Una formula vincente, quella di dedicare ampi spazi e pagine alle realtà locali di una vastissima provincia che conteggia ben 155 comuni. Il primo direttore responsabile de “La Provincia Cosentina” è stato il giornalista professionista Francesco Dinapoli. Un quotidiano che, già al suo avvio, poteva contare su una redazione centrale e sei uffici di corrispondenza. Paola per il basso Tirreno, Rossano per il basso Ionio, Corigliano, per la zona ionica, Scalea per l'alto Tirreno e Castrovillari per l'area del Pollino. Oltre ottanta erano i corrispondenti coadiuvati dai giornalisti professionisti che gestivano la redazione centrale. Già dopo solo un anno dalla prima pubblicazione la tiratura aveva raggiunto le 5.000 copie ed il venduto effettivo superava le 3.500 copie al giorno. In seguito il giornale viene acquistato dall'imprenditore Rolando Manna, Presidente de”Il Mezzogiorno Spa” con amministratore delegato Luigi Vizza. Nuovo direttore è Marco Sodano, proveniente da “La Stampa” di Torino. Dopo Marco Sodano subentra Genevieve Makaping, prima donna non italiana a dirigere una testata giornalistica. Nell'ultima fase il direttore è Antonello Troja e la proprietà dl giornale passa ad una Cooperativa . I debiti accumulati, le difficoltà gestionali porteranno al fallimento della testata. Fallimento dal quale il giornale non è più risorto, nonostante tramite l'asta giudiziaria l'azienda era stata affidata ad Umberto De Rose, imprenditore. Suo compito era quello di rilanciare il giornale nelle edicole entro un anno. Ma l'obiettivo non venne realizzato. Questa la storia, a grandi linee, della gestione aziendale. Ben più interessante è, invece, la fucina giornalistica che “La Provincia Cosentina” ha rappresentato per tanti giovani che si sono avvicinati con passione e spirito di sacrificio al mestiere di giornalista.


Gianfranco Bonofiglio

Editoriale del Direttore