“Rocco Musolino (boss di Sant’Eufemia dell’Aspromonte ndr) mi disse che aveva salvato un compaesano a lui legato che era il personaggio chiave della scorta di Aldo Moro, facendogli sapere che quel giorno egli non doveva andare a lavorare. Fu proprio quello il giorno dell’eccidio”. Sono le parole del pentito Filippo Barreca trascritte in un verbale dell’8 settembre 2016. L’uomo scampato alla strage di via Fani del 16 marzo 1978 è il vicebrigadiere Rocco Gentiluomo di Sant’Eufemia d’Aspromonte, deceduto tre anni fa. Gentiluomo era il capo-scorta degli agenti che seguivano Aldo Moro. Il vero angelo custode di Moro, però, era il maresciallo Oreste Leonardi, che decideva insieme a Moro stesso, ogni giorno, l’itinerario da fare. Fatto che si evince anche dai due unici interrogatori a cui viene sottoposto Gentiluomo, sia dal giudice Imposimato nel 1978 sia durante un’audizione della prima Commissione Moro nel 1981 dove, insieme ad altri non di turno il 16 marzo, dichiarerà anche che Moro faceva tutte le volte lo stesso percorso. Dichiarazioni queste subito smentite dalla moglie del presidente Dc, Eleonora. Quelle parole Filippo Barreca, tra i più rilevanti collaboratori di giustizia di ’ndrangheta, le ha pronunciate davanti al magistrato Guido Salvini e al tenente colonnello Massimo Giraudo. La testimonianza veniva raccolta ai fini delle indagini che l’ultima Commissione parlamentare sul sequestro e l’omicidio dell’onorevole Moro, stava conducendo. Ma di queste dichiarazioni non c’è traccia in alcuna delle relazioni pubblicate dal 2015 fino alla fine legislatura nel dicembre 2017. Ne fa debole cenno l’ex presidente della Commissione, Giuseppe Fioroni, quando pone una domanda al procuratore aggiunto di Reggio Calabria il 27 settembre 2017. Lombardo, che con il suo ufficio ha concluso da pochi giorni l’importante processo ’Ndrangheta stragista culminato in una sentenza di condanna, spiega come proprio l’area indicata dell’Aspromonte sia di riferimento alle famiglie di vertice (Nirta, Piromalli, De Stefano, Musolino, Serraino) che già prima del 1970 avevano creato la struttura riservata, parte di quella specie di massoneria che interviene in molti dei cosiddetti “misteri” italiani. Questo verbale si va ad aggiungere ad altri elementi, come la presenza del boss Antonio Nirta (classe 1947) in via Fani, la cui immagine immortalata quel giorno sul luogo della strage è stata riconosciuta dal Ris come aderente al 99% a quella del boss, e i sospetti, mai confermati, sulla presenza del legionario Giustino De Vuono utilizzato (questo è certo) dalla famiglia Nirta di San Luca in quegli anni. E, infine, a quanto dichiarato da Antonio Fiume, l’armiere dei Di Stefano, (ritenuto attendibile dalla procura di Reggio Calabria) che ha parlato di due mitragliette Skorpion da lui in precedenza custodite insieme ad altre armi, come presumibilmente utilizzate quel giorno in via Fani. La componente ai vertici della ’ndrangheta, insomma, aveva anche deciso la vita di chi doveva restare vivo e chi no quel 16 marzo del 1978, quando alle 9.02 del mattino all’angolo fra via Fani e via Stresa a nord della Capitale, moriranno i 5 agenti della scorta di Moro. Il vicebrigadiere Francesco Zizzi, che sostituì Gentiluomo, è l’unico a non morire sul colpo, perderà la vita due ore dopo in ospedale. Le indagini svolte dalla Commissione nel corso del tempo su quest’anomala sostituzione (che non è l’unica, anche l’appuntato dei carabinieri Domenico Ricci morirà al posto dell’autista Otello Riccioni) indicano documenti poco chiari sui turni svolti dal Gentiluomo e strane assenze del suo nome nel cosiddetto ruolino del personale. Nulla di più se non una dichiarazione di un suo collega, Adelmo Saba, che aveva raccolto la confidenza del Gentiluomo affermando di “essere stato salvato”. Ma nessuno gli ha mai creduto. Il collaboratore di giustizia Barreca è ormai senza protezione dal 2017, così come i suoi familiari, nonostante le sue dichiarazioni sin dal 1992 siano ancora ritenute rilevanti per i diversi processi che sono stati istruiti nel corso degli anni fino a oggi, e nonostante sia ancora chiamato a testimoniare: così almeno è avvenuto fino al giugno 2020 per la strage della nave Moby Prince (10 aprile 1991) data ultima indicata dal suo avvocato nelle carte della causa che Barreca ha intentato contro il ministero dell’Interno. Il collaboratore non si sottrae comunque al suo ruolo, per quanto sin dal 2009 la sua vera identità nel luogo dove risiede sia stata esposta pubblicamente e la sua attività legalmente impostata come concordato con lo Stato abbia subìto un grave tracollo. Tanti i fatti da lui riferiti e via via riscontrati che riguardano anche quelle indicibili commistioni fra mafie, massoneria e servizi segreti. Ma c’è un altro documento di cui vale la pena scrivere e da noi consultato: è presente presso l’Archivio Centrale dello Stato in Roma e proviene dalla Marina Militare. Il documento riferisce dell’operazione dei Comsubin (Comando subacqueo e incursori) pronti a intervenire “durante la crisi Moro”. Il ruolo dell’unità speciale è rimasto segreto fino al 1991 quando lo rivelò Cossiga. Il documento nr. 13/255/5 del 5 ottobre 1991 nell’indicare però la cronologia precisa d’intervento di quei 55 giorni pone al 15 marzo il giorno del rapimento di Moro e all’8 maggio il giorno del ritrovamento del corpo: i commenti riferiti ai due giorni rispettivamente sono di “stato di allerta” autonomo e di “prosieguo del corso fino al suo completamento” nel giorno del “rinvenimento del cadavere di Moro”. Le date ufficiali della storia sono invece quelle che tutti conosciamo: 16 marzo e 9 maggio 1978. Difficile pensare a un errore di battitura, le attività trascritte sono parte di una serie cronologica fitta comprendente l’arco dei giorni del sequestro e sigillata da timbri e contro timbri. Il 15 marzo 1978 al vicebrigadiere Gentiluomo viene detto di prendersi delle ferie. Un giorno fortunato il suo, mentre i Comsubin si pongono già in stato di allerta autonoma per intervenire nel caso Moro che deve ancora iniziare.
Articolo di Simona Zecchi
Tratto da: Il Fatto Quotidiano