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Le recente puntata di Report dedicata al sequestro e alla morte dell'allora Presidente della Dc, Aldo Moro, ha il merito, dopo ben 46 anni, di illustrare in modo molto chiaro come l'omicidio Moro sia stato un omicidio di Stato voluto da apparati esteri che allora governavano l'Italia in nome dell'anticomunismo e nella cornice della guerra fredda.

Che l'Italia di quegli anni fosse eterodiretta come lo erano le stesse Brigate Rosse è oramai fuor di dubbio alcuno.

I servizi segreti americani con quelli inglesi e israeliani da un lato in funzione anticomunista e i servizi segreti dei paesi sovietici che affollavano una Roma piena di spie, infiltrati e personaggi ambigui spalleggiati e spesso tutelati dagli stessi servizi segreti.

E in tale cornice i servizi segreti non disdegnavano pur di giungere all'obiettivo sacro di prevenire l'ingresso al governo dei comunisti di utilizzare anche organizzazioni criminali come avvenne nel caso Moro e non solo attraverso la Banda della Magliana ma anche e soprattutto con la partecipazione della 'ndrangheta che già nel 1978 era fortemente presente nella Città Eterna.

L'idea di Aldo Moro di aprire ad un Pci diverso da quello russo come quello voluto da Berlinguer preoccupava da un lato gli americani e soprattutto Henry Kissinger, passato recentemente a miglior vita alla veneranda età di 100 anni, e dall'altro i russi e le polizie segrete degli Stati allora gravitanti nel blocco sovietico che tanto peso ebbero nell'armare e addestrare appartenenti alle Brigate Rosse.

Emerge dalla bella illustrazione di Report quello che in tanti già sapevano. La partecipazione della struttura Gladio, la presenza di personaggi americani legati alla CIA, del servizio inglese, il mitico "MI6" e del Mossad, il servizio segreto d'Israele.

Ma nella ampio mondo sotterraneo che venne coinvolto per l'operazione Moro cosa si può affermare del ruolo che svolse la 'ndrangheta?

Tanti gli indizi.  Dal Bar Olivetti di Via Fani nel quale sembra si  tenessero incontri fra esponenti di 'ndrangheta, servizi segreti e traffico d'armi, dalla presunta presenza nel giorno del sequestro a Via Fani di Giuseppe Nirta, uomo di punta dell'ndrangheta di allora e della sospettata partecipazione al sequestro di un personaggio da film, Giustino De Vuono, nativo di Scigliano, piccolo paesino della Valle del Savuto in provincia di Cosenza, 'ndranghetista, ex legionario della Legione Francese e soprattutto famosissimo per essere allora il miglior tiratore scelto esistente nell'uso dei mitra.

Ed il sospetto che il tiratore dei 49 colpi tutti andati a segno che non è mai stato rintracciato fosse proprio lui, dopo essere stato scarcerato in seguito ad una visita nel Penitenziario dove era detenuto da alcuni uomini dei servizi.

Questa è ovviamente solo una leggenda, solo una ipotesi, anche se il nome di Giustino De Vuono, venne fatto nei giorni immediatamente successivi al sequestro e alla morte di Aldo Moro.

Come rimane una leggenda il famoso elenco di 224 "Gladiatori" che non facevano parte dell'elenco dei 662 nomi consegnati quando Giulio Andreotti nel 1992 ne dichiarò pubblicamente l'esistenza.

Ed in merito a tale elenco più ristretto la leggenda narra che in molti parteciparono alla vicenda Moro e che fra questi vi erano anche non solo noti esponenti di 'ndrangheta del tempo ma anche nomi di politici calabresi, per lo più della vecchia Dc e qualche esponente anche del vecchio Psi. Elenco mai ritrovato e scomparso per sempre.

E sulla vicenda Moro ed il ruolo della 'ndrangheta riproponiamo un pezzo scritto su "La Voce Cosentina.it" negli anni passati, oggi più comprensibile per chi ha avuto la possibilità di vedere la puntata di Report condotta magistralmente da Sigfrido Ranucci.

"La 'ndragheta e il caso Moro, la figura di Giustino De Vuono, ex legionario, nato a Scigliano (Cs)"

"Nel processo "Ndrangheta stragista" in corso presso il Tribunale di Reggio Calabria si è posto in evidenza come negli anni passati possa essere stato in vigore un possibile accordo fra 'ndrangheta e apparati deviati dello Stato.


Addirittura sembra che nella stagione dei sequestri di persona una percentuale dei proventi venisse addirittura destinata ad aree composte da servizi segreti deviati e apparati illegali ma tollerati perchè facenti parte di quel "Sistema" che in nome della guerra fredda, della strategia della tensione e della pianificazione di determinati atti mirati al supremo obiettivo di non creare le condizioni affinchè il più forte partito comunista in un Paese occidentale e facente parte della Nato e del Patto Atlantico, il Pci, che era uno Stato nello Stato, non andasse al potere.

Ed in tale contesto non si disdegnava anche l'accordo con le forze criminali. Già nello sbarco in Sicilia degli alleati lo stesso venne facilitato per l'accordo governo americano - mafia italo americana e mafia della Sicilia.

In tale contesto si inquadra anche il rapimento e la morte dello statista democristiano, Aldo Moro, reo agli occhi degli americani, della Cia e del potente Henry Kissinger, di lavorare per il compimento del cosiddetto "compromesso storico".

Ed in tale contesto si inquadra anche la partecipazione della 'ndrangheta nell'azione militare del sequestro di Aldo Moro a Via Fani.

In una delle ultime interviste rilasciate dal compianto Presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga, si sottolinea una delle tante zone d'ombra di quella vicenda.

Il ruolo che avrebbe potuto assolvere nei famosi giorni della prigionia di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse l'organizzazione criminale calabrese, la 'ndrangheta, che già allora vantava non poche aderenze nel mondo politico e cosiddetto istituzionale.

Particolare interesse riveste la testimonianza dell'ex deputato democristiano Benito Cazora che venne incaricato dal vertice dell'allora Dc di avviare dei contatti con esponenti della malavita calabrese per cercare di scoprire qualche preziosa informazione sulla prigionia di Aldo Moro.

Circostanza che lo stesso Benito Cazora confermerà nell'ambito del dibattimento relativo al processo Pecorelli che si tenne a Perugia. Il 10 aprile 1997 Benito Cazora sostenne che già dopo solo sette giorni dal sequestro di Aldo Moro un calabrese conosciuto con il nome di Rocco indicò all'allora questore di Roma il fatto che in Via Gradoli vi fosse un covo delle Br.

Illuminante anche la frase che tale Rocco disse in un incontro avuto con l'allora deputato . "Posso dare informazioni sul covo dove nascondono Aldo Moro perché i calabresi a Roma sono 400.000 e possono controllare il territorio".

In molti si chiesero negli anni successivi alla morte del leader della Dc, come fosse stato possibile che i calabresi sapessero dell'esistenza del covo di Via Gradoli.

Quella stessa via il cui nome comparve nel mentre di una seduta spiritica alla quale parteciparono numerosi esponenti politici e quello stesso covo dove ben tre poliziotti, giunti al suo ingresso e scampanellando più volte, non ricevendo alcuna risposta, decisero di andarsene e non di forzare l'ingresso per entrare e controllare se qualcuno occupasse l'appartamento.

E non basta, un altro ennesimo  mistero è rappresentato dalle foto che  un fortuito spettatore dell'eccidio di Via Fani effettuò a pochi secondi dalla fuga del commando che sequestrò lo statista democristiano. Foto che vennero consegnate alla magistratura inquirente ma delle quali non si seppe più nulla.

Foto che misteriosamente scomparvero e non vennero mai più trovate. Eppure, per come ha sostenuto Sergio Flamigni, ex senatore del Pci, tali foto interessarono gli ambienti malavitosi calabresi.

E tale interessamento si evince dal contenuto dell'intercettazione di una telefonata fra Sereno Freato, segretario particolare del Presidente della Dc, ed un deputato della balena bianca.

E non è certamente un caso il fatto che alcune delle lettere che Aldo Moro scrisse durante la sua prigionia vennero indirizzate all'allora potente notabile democristiano, il calabrese Riccardo Misasi che si schierò a favore di coloro i quali erano i fautori di una possibile trattativa con le Br per salvare la vita di Aldo Moro. E spesso , negli anni successivi lo stesso Riccardo Misasi che si ritirò in Umbria dove visse gli ultimi anni della sua esistenza, affermò con rimpianto che esisteva qualche possibilità di salvare la vita ad Aldo Moro.

Ed ancora oggi rimangono insoluti tanti interrogativi e tanti misteri. Quale ruolo ebbe la 'ndrangheta nel sequestro e nella morte di Aldo Moro? Quali parti deviati delle istituzioni ebbero contatti, se ve ne furono, con esponenti importanti dell'organizzazione criminale che a Roma esercitava il suo peso e che aveva contatti sia con la mafia siciliana che con la malavita romana, allora capeggiata dalla Banda della Magliana?

Che attendibilità ha realmente l'ipotesi che quel giorno in Via Fani fosse presente un esponente di spicco della 'ndrangheta? A tali interrogativi non vi saranno probabilmente mai delle risposte in perfetta linea con un Paese fondato su misteri ed intrighi mai risolti.

Ma non basta. Altra figura che , rimasta sempre nell'ombra, potrebbe aver avuto, invece un ruolo importante quella mattina del 16 marzo 1978, quando a Via Fani vennero uccisi gli uomini della scorta e venne rapito Aldo Moro, è quella di Giustino De Vuono, calabrese nato a Scigliano, piccolo comune dell'entroterra cosentino, ex volontario della Legione Straniera.

La tomba di Giustino De Vuono al piccolo Cimitero di Scigliano (Cs)

 

Il commando che sequestra Moro in tre minuti spara 91 colpi, 49 dei quali da una sola arma, mai ritrovata, usata da un solo killer.

Un vero professionista espertissimo dell'uso delle armi. Tutti i 49 colpi vanno a segno. Giustino De Vuono è uno di quegli uomini che sembrano essere solo frutto della fantasia di registi che amano dirigere film di spionaggio, controspionaggio e misteri.

Una vita avventurosa vissuta fra l'Italia ed il resto del Mondo. Negli anni del sequestro e quelli successivi Giustino De Vuono si trova in Sudamerica con frequenti spostamenti fra Paraguay e Brasile.

“De Vuono è un personaggio che non ha avuto tutta l'attenzione che avrebbe meritato – afferma Aldo Giannuli , perito della Commissione Stragi e professore alla Statale di Milano – e non c'è dubbio che se dovesse essere confermata la sua presenza a Via Fani, si sposta tutta la lettura del caso Moro”.

Ma tutto ciò è solo e unicamente nel campo delle ipotesi senza alcun supporto di fatti concreti o accertati. Non si è mai andati sino in fondo nell'analizzare la figura di Giustino De Vuono come non si è mai andati sino in fondo nell'accertare la presenza a Via Fani sul piazzale del Bar Olivetti del boss della 'ndrangheta Antonio Nirta, per come ha dichiarato Saverio Morabito, collaboratore di giustizia, per come appurato nell'analisi di una foto nella quale appare anche Giustino De Vuono.

 

Nella foto scattata a Via Fani si indentificano nei cerchetti il boss Giuseppe Nirta e Giustino De Vuono

 

Sussistono molti dubbi e vi è il sospetto e la sensazione che molte verità siano state depistate e volutamente confuse con verità costruite ad hoc. Una storia tutta italiana e come tutte le storie ed i misteri d'Italia la verità non sarà mai conosciuta ed il mistero rimarrà tale.

( nella foto di copertina uno dei tanti articoli pubblicati sulla Gazzetta del Sud del 13 maggio, dopo solo quattro giorni dal ritrovamento del corpo di Aldo Moro il 9 maggio 1978 in Via Caetani a Roma)

Redazione

 


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