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In altri tempi lo scioglimento del Comune di Rende per infiltrazioni mafiose avrebbe destato meraviglia, reazioni di piazza, dichiarazioni e movimenti vari, considerando che la storia di Rende non è paragonabile a comuni come Platì o altri che hanno subito l'identica sorte.
 
Rende era un modello per tutti gli altri comuni. E' ancora oggi il territorio dove sorge l'Università della Calabria.
 
E' un comune composto prevalentemente da un ceto medio-alto di professionisti, di impiegati dello Stato, di benestanti. Ma nonostante ciò la decisione presa dal Ministero degli Interni e tutte le inchieste giudiziarie che lo hanno travolto rattristano chi ha vissuto e vive a Rende.
 
Ma l'aspetto più inquietante che induce a delle riflessione è il totale silenzio, tranne qualche piccola eccezione, che ha accompagnato la decisione presa dal Ministero degli Interni.
 
Il silenzio dei partiti, il silenzio delle associazioni, il silenzio dei Big politici, tranne qualche lodevole eccezione,  che spesso e sovente sentenziano e pontificano su tutto e tutti. Un silenzio che non può essere mistificato dalle solite dichiarazioni di facciata dove non si accenna minimamente al degrado della classe politica che, ovviamente, non riguarda solo Rende ma l'intera Calabria e l'intero Paese.
 
Nessun intervento parlamentare, nessuna reazione dai segretari di partito anche se sempre più latitanti, nessuna reazione della cosiddetta "società civile", ammettendo che ancora sia qualcosa di esistente.
 
Nulla di nulla.
 
In una passività ed una rassegnazione tipica di una società che può inquadrarsi in quella "connivenza innocente" definita dai sociologi Pino Arlacchi e Nando dalla Chiesa fin dagli anni '80 come "quella accettazione passiva e rassegnata della popolazione onesta del fenomeno mafioso e della corruzione" che rende sempre più forte le organizzazioni criminali e i loro epigoni politici e sempre più debole la società e sempre più vittime gli onesti.
 
Una "connivenza innocente" che ha pervaso anche la comunità rendese che un tempo era ben altro.
 
Ma è, purtroppo, un tempo che fu.
 
Gianfranco Bonofiglio

Editoriale del Direttore