Fra la sterminata bibliografia relativa al fenomeno del pentitismo vi è un testo degno di nota sia per il rigore professionale con cui è stato elaborato e sia per il fatto che lo stesso è il frutto di una ricerca e di uno studio durato ben sei anni.
Si tratta del volume edito dal “Gruppo Abele” dal titolo “Dalla Mafia allo Stato. I pentiti: analisi e storie” edito nel 2005. Il testo che delinea l'accurata ricerca sul fenomeno del pentitismo è stato curato dai giornalisti Giovanna Montanaro e Francesco Silvestri. La Prefazione è stata curata da Gian Carlo Caselli. Il testo contiene anche delle interviste ( per la precisione diciotto) rilasciate da pentiti di “calibro” delle quattro organizzazioni criminali operanti in Italia, la 'ndrangheta, la mafia, la camorra e la sacra corona unita. Fra questi Gaspare Mutolo. Giuseppe Marchese, Carmine Schiavone, Umberto Immaturo, Giacomo Lauro e Franco Pino solo per citarne alcuni. E nell'ambito di tale lavoro venivano posti interrogativi che, oggi a distanza di ben dodici anni, sono ancora più attuali di allora. “Chi sono i collaboratori di giustizia?”, “Quanti sono?”, Come vivono oggi?”, “Perché hanno fatto tale scelta?”, “Come vivono da protetti?” “Come vivono quando escono definitivamente dal programma di protezione?”. Domande alle quali non è facile rispondere considerando tutti i risvolti complessi che si legano alla scelta di divenire un collaboratore di giustizia. Ma negli ultimi anni si registra un fenomeno che deve indurre a delle attente riflessioni. Quello di affidare lo status di “collaboratore di giustizia” con tutto ciò che ne consegue anche a personaggi che non hanno grandi storie criminali alle spalle e che sono talvolta anche giovanissimi, appena ventenni, in alcuni casi. E sempre più spesso personaggi che tendono ad ingigantire e millantare ruoli ed accadimenti pur di giungere all'obiettivo di essere ritenuto collaboratore di giustizia. Il tutto a discapito dell'attendibilità e dei riscontri necessari a dare veridicità ai racconti alle deposizioni dei collaboranti. E questo è quello che si registra soprattutto a Cosenza e dintorni. Infatti la storia del pentitismo cosentino è variegata e degna di una vasta ed inesauribile scenografia da film. Vi è di tutto. Pentiti che si combattono e si sfidano fra loro. Pentiti che si pentono di essersi pentiti. Pentiti che ritornano a delinquere per poi ripentirsi. Pentiti ai quali verrà revocato il programma di protezione per accertati contatti con il mondo criminale anche dopo essersi pentiti. A Cosenza la storia del pentitismo vanta anche un pentito “ad litteram”, un pentito che si è pentito prima ancora che venisse scritta ed approvata la legge sui collaboratori di giustizia. Quindi, per come erano definiti allora, un dichiarante. Si tratta di Antonio De Rose che il 10 marzo del lontano 1986 ( la legge che sancisce la nascita del collaboratore di giustizia è del febbraio del 1991) si presenta spontaneamente agli inquirenti e non solo delinea con scrupolo l'organigramma di tutte le fazioni che insanguinarono la città bruzia nei primi anni'80 con lo scontro fra il gruppo Pino ed il gruppo Perna dopo la morte il 14 dicembre 1977 dell'allora capo indiscusso della malavita cosentina, Luigi Pelermo, detto “U Zorru”, ma porta gli inquirenti anche a scoprire i corpi maciullati e senza vita di due persone che gli stessi inquirenti neanche sapevano che erano stati uccisi. Ma era il 1986 e la corruzione che allora vigeva anche nelle istituzioni portò alla scarcerazione di tutti coloro i quali vennero arrestati nel blitz seguito alle dichiarazioni del De Rose pochi giorni dopo. Addirittura le accuse vennero derubricate da associazione mafiosa ad associazione a delinquere semplice come se tutti gli omicidi compiuti nei primi anni '80 a Cosenza e, fra questi, anche omicidi eccellenti come il direttore delle carceri, Sergio Cosmai, fossero avvenuti per caso ed il De Rose venne, ovviamente, dichiarato incapace di intendere e volere. Invece le dichiarazioni del De Rose collimarono al millimetro con le dichiarazioni successive di altri pentiti negli anni '90. Il primo a pentirsi dopo l'approvazione della legge sui pentiti voluta soprattutto dai giudici Falcone e Borsellino nel '91, l'anno precedente alla loro morte, fu Francesco Staffa, seguì Roberto Pagano e poi i fratelli Dario e Nicola Notargiacomo. Da questi primi pentiti scattò la prima grande inchiesta cosentina, il procedimento “Garden” nell'ambito del quale si pentirono poi in tanti altri. Certamente il pentimento più eclatante che segnò uno spartiacque e la fine di una prima storia della criminalità bruzia fu il pentimento nel maggio del 1995 del boss dagli occhi di ghiaccio, Franco Pino, oggi sessantacinquenne, che passò dalla mafia allo Stato alla giovane età di quarantatré anni dopo essere stato l'indiscusso capo per ben diciotto anni. Tanti i pentiti che si sono aggiunti nel tempo. Solo per citarne alcuni Umile Arturi, Francesco Amodio, Francesco, Ferdinando e Giuseppe Vitelli, Franco Garofalo, Nicola Belmonte, Angelo Santolla, Francesco Tedesco, Oreste De Napoli, Francesco Bevilacqua, Erminio Munno, Giuseppe Bonfiglio, Luigi Tripodi, Vincenzo Nemoianni, Domenico Scrugli, Maurizio Giordano, Carmine Cristini, Vincenzo Dedato, Eduardo Capizzano, Pierluigi Berardi, Luciano Oliva, Angelo Colosso, Luigi Paternuostro, Francesco Galdi, Pierluigi, Silvio Gioia, Mattia Pulicanò e tanti, tanti altri ancora. (E' anche difficile avere un numero certo, ma almeno una ottantina nella sola area urbana cosentina). Un elenco sterminato, probabilmente eccessivo se lo si confronta con il numero dei pentiti della mafia siciliana, della camorra napoletana e della storica 'ndrangheta reggina. Ma perché Cosenza ha registrato così tanti pentiti?. Probabilmente per la genesi della stessa criminalità cosentina ben diversa da quella reggina composta da nuclei familiari. A Cosenza si è trattato inizialmente negli anni '70 e primi anni '80 dell'evoluzione di bande di quartiere. In seguito dalla scelta di tanti giovani spesso abbagliati da un mondo oscuro che non è certamente tutto rose e fiori. E negli ultimi anni si è evidenziato, anche sui mass – media locali, il continuo rosario di dichiarazioni di giovani pentiti delle ultime generazioni criminali sulle presunte relazioni che coinvolgerebbero anche il mondo politico, imprenditoriale e delle professioni. Ad onor del vero anche quando nel maggio del '95 si pentì Franco Pino circolavano voci di coinvolgimenti di nomi illustri e del cosiddetto terzo livello, cioè quel livello di contatto fra la politica corrotta e le organizzazioni criminali. In realtà non accadde nulla di nulla e le dichiarazioni di Pino sulla politica vennero ritenute poco attendibili. Non furono in pochi, allora, quelli che si posero il quesito se tali valutazioni furono realmente non condizionate da interessi occulti e da manovre di palazzo. Oggi a ventidue anni di distanza il clima è ben diverso. L'antipolitica è sentitissima e la consapevolezza che la politica fin troppo spesso si sia adagiata su compromessi per ottenere voti di scambio e finanziamenti occulti è diffusa ad ogni latitudine. Ma, nonostante tutto, i legami fra la politica e la criminalità a Cosenza rimangono tabù e nessuna inchiesta degna di questo nome è stata mai portata avanti dagli organi inquirenti. Continua indisturbato un clima di impunità e di zona franca che rende Cosenza un territorio idoneo per qualsiasi corruzione e intrallazzo, considerato che non si è mai operato come, invece. È avvenuto A Reggio Calabria, a Palermo e in altri territori. Ma, nonostante ciò, è anche giunto il momento di aprire un serio dibattito, non solo fra gli addetti ai lavori, sul pentitismo e sulla validità dello stesso anche per evitare che un uso improprio possa divenire strumento di lotta politica e di ricatto fra lobby di potere. La lotta alla 'ndrangheta e alla corruzione è un fine troppo nobile per essere sacrificato ai soliti intrighi di palazzo. Almeno così dovrebbe essere.ma in alcune aree del Paese, così, purtroppo non è. Il rischio è che il fenomeno del pentitismo si affievolisca, che perda il suo ruolo che, invece, ha mantenuto nei suoi primi anni e che la 'ndrangheta ne sia scalfita marginalmente e che continui ad essere, per come già lo è, l'organizzazione criminale più forte del mondo. Una vera holding planetaria con un potere immenso e certamente non solo in Calabria, ma ovunque, con buona pace dei pentiti e della memoria di Falcone e Borsellino, che con il pentitismo erano convinti che si sarebbe potuto infierire alle organizzazioni criminali un colpo mortale. Ma Falcone e Borsellino erano siciliani e non conoscevano la Calabria e la 'ndrangheta che, prendendo il posto della mafia siciliana, è oggi molto più potente di quando la mafia siciliana era sotto l'egemonia dei corleonesi.
Redazione
23 giugno 2017