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L’ultimo caso di femminicidio avvenuto, nei giorni scorsi, a Scalea, nell’alto tirreno cosentino, porta necessariamente ad una riflessione seria e in ogni ambito: sociale, clinico, educativo e anche di comunicazione.

Ed è su questo ultimo aspetto che, anche da giornalista, mi soffermo ogni qualvolta ci troviamo a dover ‘raccontare’ un fatto di cronaca e nello specifico di femminicidio e violenza di genere.

Dalla Convenzione di Instanbul, con riferimento all’articolo 17, al Manifesto di Venezia del 2017, inserito nel codice deontologico dei giornalisti, si parla di una corretta informazione per contrastare la violenza sulle donne. Recita: “Noi, giornaliste e giornalisti firmatari del Manifesto di Venezia ci impegniamo per una informazione attenta, corretta e consapevole del fenomeno della violenza di genere e delle sue implicazioni culturali, sociali e giuridiche. La descrizione della realtà nel suo complesso, al di fuori di stereotipi e pregiudizi, è il primo passo per un profondo cambiamento culturale della società e per il raggiungimento di una reale parità”.

E se negli anni al fenomeno è stato dato un nome e si riferisce ad una casistica precisa quanto ampia per manifestazione di reati, è anche vero che è ormai una costante ritrovare quelle frasi, con una descrizione sempre più fuorviante e una narrazione quasi tossica del fatto.

Più la violenza di genere aumenta, che va dalla violenza fisica a quella psicologica, dallo stalking allo stupro, a cui si aggiungono i reati connessi all’utilizzo di internet e dei social media, fino all’omicidio, più si coniano termini che cercano di “normalizzare” gli accaduti.

Ed ecco che quei termini ritornano, soprattutto lì dove è più alta la spettacolarizzazione, a dirottare verso l’accettazione passiva di ciò che ormai è diventata quotidianità.

“Era una brava persona”, “Salutava sempre”, “Era un gran lavoratore e stravedeva per la moglie”, e poi “Erano innamorati e felici”, “Proprio una bella famiglia”, queste sono alcune delle frasi che come un mantra, oramai, vengono ripetute dai parenti, amici, vicini, conoscenti, dopo un fatto di cronaca, un omicidio, un femminicidio.

Libro scritto dalla giornalista Fabrizia Arcuri

Un mantra che probabilmente serve ad esorcizzare l’accaduto. “E chi poteva mai immaginarlo”, frasi purificatrici come se le tragedie venissero dettate dal nulla, o da spiriti, o ancor peggio da quello che in molti chiamano in causa consegnandogli colpe e azioni: “è stato un raptus”, un momento improvviso, una follia momentanea. Ma quel fantomatico “raptus” non esiste, l’Associazione nazionale degli psichiatri italiani l’ha affermato da tempo.

Sono tutte in qualche modo tragedie annunciate e ci si accorge di ciò quando si comincia a cercare il movente, che porta il più delle volte alla premeditazione, e nelle confessioni delle vittime superstiti, dei carnefici, nelle testimonianze dei parenti e degli amici, scavando più a fondo emerge un quadro diverso, i puzzle vengono ricomposti, tassello dopo tassello, ritornano alla mente gesti, parole, scatti, rabbia, il proprio vissuto viene sviscerato, come se la lente di un microscopio riuscisse a scrutare nell’intimo, nel tempo.

Ed ecco che incomprensioni, litigi, disagi, conflitti anche interiori, crescono giorno dopo giorno, s’incanalano in meccanismi di autodifesa, creano mostri con cui si convive, sino a quando arriva quell’elemento scatenante che materializza il proprio bersaglio, soggetto o soggetti su cui riversare le proprie frustrazioni, infelicità, rabbia. Statisticamente il luogo dove la violenza esplode in maniera più incondizionata è la famiglia.


Si perdono di vista per un attimo i soggetti, vittime o carnefice, e si va alla ricerca di moventi inammissibili, di particolari morbosi, si profana la semplice verità con costruzioni inverosimili o peggio si utilizzano le cosiddette “esche mediatiche” al solo scopo di attirare la curiosità del pubblico o lettore, più un dettaglio è morboso più si gioca su di esso.

Arrivando addirittura a giustificare l’azione compiuta in funzione di quel presunto e ormai scontato raptus. Fino a confondere i ruoli e i protagonisti, si colpevolizza la vittima e si difende il carnefice. “L’uomo ha commesso l’omicidio perché non poteva sopportare l’idea della separazione”, “Separazione difficile”, “L’ultimo gesto del suo amore”, “Non sopportava di perderli”, “La separazione l’ha cambiato”, questi gli esempi nei casi di femminicidio o di family mass murder.

Nei casi di stupro o violenza fisica poi si arriva a quella che è stata definita colpevolizzazione della vittima che si trova nella condizione di dare spiegazioni o doversi giustificare per aver in qualche modo provocato e indotto la violenza. Ed ecco che sia arriva alla lapidazione mezzo stampa e le piazze virtuali o i talk show diventano veri e propri tribunali dell’inquisizione che riescono ad imprimere lettere scarlatte o aggiungono altre cicatrici ai già martoriati corpi delle vittime secondarie.

Ci si dimentica quasi sempre delle famiglie, degli affetti, dei superstiti, di chi rimane e deve convivere con quel dolore e con ciò che consegue ad ogni atto delittuoso, dalle indagini ai processi, all’affidamento di minori che vengono di colpo catapultati in tutt’altra realtà e in un mondo che forse non gli appartiene.

Le parole non sono neutre, si dice, la semantica della violenza ha sempre una base linguistica, a maggior ragione per un giornalista che deve attenersi “alla verità sostanziale dei fatti” e al quale si chiede il rispetto dei diritti fondamentali della persona e l’osservanza delle norme di legge poste a tutela.

Se poi si richiama anche quell’aspetto sociale dell’informazione, “considerando che i media agiscono come un quarto potere, hanno la capacità di influenzare e in definitiva plasmare l’opinione pubblica”, così come ricordato più volte dal Parlamento europeo, il quadro è completo.

Negli anni sono state diverse le associazioni o movimenti spontanei contro la violenza sulle donne che hanno richiamato la stampa a quei principi del codice deontologico e delle leggi e norme vigenti per il rispetto e la parità di genere nell’informazione.

Lo scopo non è soltanto il superamento degli stereotipi, dei pregiudizi e la valorizzazione delle differenze di genere ma anche che, con la funzione sociale a cui si è fatto riferimento, si possa contribuire al quel cambio di rotta culturale e strutturale che ancora relega la donna a funzioni e ruoli di sottomissione sociale e professionale, alimentata anche da espressioni linguistiche inappropriate quanto lesive e non veritiere che nulla hanno a che fare con la notizia di cronaca.

Anche questi sono passaggi necessari, obbligati, perché si raggiunga la parità di genere realmente sostanziale e non solo formale.

 
Fabrizia Arcuri

Giornalista, autrice del libro “Sangue del mio Sangue”


Editoriale del Direttore