Medici e anestesisti firmano un protocollo congiunto in cui si precisa che l'accesso alla terapia intensiva sarà privilegio di chi “potrà ottenere grazie ad essa un concreto, accettabile e duraturo beneficio”. Nel momento in cui i posti disponibili saranno inferiori ai pazienti necessitanti di cure bisognerà operare una scelta, che vada dall'età del soggetto al quadro clinico generale, oltre “lo stato funzionale pregresso, l’impatto sulla persona dei potenziali effetti collaterali delle cure intensive, la conoscenza di espressioni di volontà precedenti". Il documento è stato vergato dalla Federazione nazionale dei medici (Fnomceo) e dalla Società italiana di anestesia (Siaarti). Di questa situazione se n'era già parlato a marzo, quando lo stress sulle strutture cliniche aveva raggiunto i picchi di massima. Già allora vi furono molte critiche. Dovendo tuttavia – si precisa - "il medico sempre provvedere a porre in atto le valutazioni e l’assistenza necessaria affinché l'eventuale progressione della patologia risulti il meno dolorosa possibile e soprattutto sia salvaguardata la dignità della persona". C’è chi giudica queste misure come bestiali, nichiliste, che danno supremazia al concetto di razionalità e selezione della specie. In Svizzera lo scorso febbraio il Governo centrale aveva cercato di varare un protocollo drastico, tra scandali e polemiche in tutto il mondo, anche nella comunità medico-scientifica. Ad esempio in quel caso si decideva insindacabilmente che gli over 85 non potessero accedere alle terapie intensive, o gli over 75 con patologie gravi, o i giovani con aspettativa di vita inferiore ai 12 mesi, ecc. L’errore era voler mettere paletti incontrovertibili, che non tenessero conto dell'autonomia decisionale delle strutture sanitarie, dei medici, e dei comitati etici caso per caso. S’è vero che non si può trattare la razza umana come un codice a barre, è anche vero che – al netto di retorica e ipocrisia, con protocolli o leggi firmati o meno, una scelta con annesse responsabilità qualcuno deve pur farla. Se parliamo in termini circostanziali, non è giusto o sbagliato, ma dolorosamente necessario. Avendo dieci bicchieri d'acqua e mille assetati, dovrò necessariamente orientare le mie scelte con il criterio delle “possibilità di sopravvivenza”. Il punto dolente semmai, la vera denuncia che andrebbe fatta è: “Perché abbiamo creato una simile situazione?” Già, i drammi del nostro Servizio Sanitario Nazionale partono da lontano e sono figli di oltre vent’anni di spending review. Prendiamo i posti letto di terapia intensiva, nel 2012 l’Italia ne aveva 12,5 ogni 100mila abitanti (Belgio 15,9; Austria 21,8; Germania 29,2), a febbraio 2020 siamo scesi a 8,58 ogni 100mila abitanti. Secondo i dati Istat nel 2016 per la Sanità abbiamo speso 1.844 euro ad abitante, la Francia 3.201 euro, la Germania 3.605 euro, l’Inghilterra 2.857 euro. Nel 2019 l’OCSE afferma che il Bel Paese è sotto la media sia per la spesa sanitaria totale, che per l’investimento pubblico (6,5% del PIL nel 2017), facendo meglio solo di Spagna, Portogallo, Grecia. E con tutti i limiti, abbiamo comunque la quarta migliore aspettativa di vita dell’area, grazie alla prevenzione primaria, gli stili di vita sani, la qualità dell’alimentazione, ecc. Dal 2010 al 2019, denuncia la Fondazione Gimbe, sono stati tagliati 37 miliardi di euro alla Sanità. Con finanziamenti che sono cresciuti meno del fabbisogno e comunque dello 0,9% annuo, a fronte di una inflazione media dell’1,07%. Questo significa che in termini reali, di spesa, s’è ridotta e non aumentata la capacità. Dal 1998 in poi sono calati costantemente i posti letto nelle strutture pubbliche con un incremento dei privati convenzionati, che pero alcuni servizi (come l’intensiva) non li garantiscono. Così siamo passati dai 5,8 posti letto ogni mille abitanti (per la degenza ordinaria), ai 4,3 ogni mille abitanti del 2007, per concludere amaramente con i 3,6 ogni mille abitanti nel 2017. La media europea è di 5 posti letto ogni mille abitanti. Nel 1980 avevamo 922 posti per malati acuti ogni centomila abitanti, oggi siamo arrivati a 275. Al di sotto di Paesi come la Serbia, la Slovacchia, Bulgaria e Grecia. Ultima nota scottante, gli operatori sanitari. Tra il 2009 e il 2017 abbiamo perso oltre 8mila medici e 13mila infermieri. A proposito di infermieri, siamo molto al di sotto della media europea (5,8 ogni mille abitanti a fronte degli 8,5 UE). Restiamo sopra la media per i medici, con un calo però di quelli di famiglia e che esercitano nel pubblico. Tutto questo per dire che forse i lockdown serrati e continui a cui ci stanno sottoponendo servono a salvare prima il SSN, e poi le vite umane. Se davvero abbiamo percentuali quasi assolute di asintomatici, è la gestione – il panico – e il voler tracciare chiunque contragga il virus pur non avendo sintomi, ad avere mandato in tilt il sistema. Non abbiamo le strutture, gli operatori, i mezzi, i dispositivi, per un’operazione di tale portata. Con molti virologi perfino contrari, sia sugli allarmismi, sia su questo irrazionale fomentare la paura. Abbiamo generato la “corsa agli sportelli”, con i pronto soccorso al posto delle banche. Ovvio che gli ospedali vadano in default. Il Coronavirus ha tolto il velo a una fragilità endemica, consolidata, che abbiamo costruito negli anni. Solo tornando a investire seriamente su Salute, benessere e assistenza, potremo tutelarci – oggi e in futuro – dai pericoli del domani.
Articolo scritto da Andrea Lorusso
Fonte: www.affaritaliani.it